Poi si è consolidato grazie anche al contributo della fondazione Cariparo. «Oggi Re.T.E. Solid.A. – racconta Massimiliano Monterosso, responsabile del progetto – mette in contatto chi ha avanzi o eccedenza di alimenti con chi fa attività di solidarietà. A Padova ci sono molte realtà di volontariato e supporto alle persone in stato di bisogno: quando siamo partiti fin da subito abbiamo voluto non sostituire quello che già c’era, ma andare a servizio di quelle realtà che facevano il servizio». Un dono che si fa dono. «Ci sono associazioni, enti religiosi, cooperative, comunità di accoglienza, Caritas parrocchiali – continua Monterosso – tutte realtà con modalità diverse di distribuzione e quindi a seconda del tipo di attività che l’ente fa, viene proposto uno o più tipi di recupero, cioè se una parrocchia fa la distribuzione dei pasti una volta al mese, non gli si propone il recupero caldo del pasto dalle scuole. Cuciamo un vestito su misura per ogni ente».
Oggi i circuiti di distribuzione sono fondamentalmente quattro: il primo è il recupero dalle scuole, «il più complicato – dice il responsabile – perché si mette in atto se ci sono realtà vicine alla scuola in grado di consumare il prodotto immediatamente, come ad esempio case famiglie o case di accoglienza. E poi bisogna anche capire se quanto recuperato può andare bene alla realtà che lo riceve in termini di quantità o tipologia di cibo». Il secondo è quello della grande distribuzione, e quindi i prodotti prossimi alla scadenza ma utilizzabili vengono donati una o più volte la settimana. La terza filiera è quella che interessa anche la nostra Associazione, il recupero della frutta. «È un sistema complesso – afferma Monterosso – che ci consente di recuperare grandi quantitativi di frutta da tutta Italia dai surplus delle cooperative di produttori che ricevono un contributo dai fondi comunitari per il trasporto e confezionamento».
Gli enti accreditati vengono avvisati una settimana prima e prenotano il necessario. A monte c’è un controllo sul numero di persone assistite, la frequenza della distribuzione, il consumo, in modo tale che il carico sia conforme. Quando arriva il camion, in genere due volte al mese, i prodotti prenotati sono assegnati e quindi caricati nei furgoni e distribuiti. Per l’Associazione Universale di Sant’Antonio essere parte di questa filiera è davvero importante: ci permette infatti di donare frutta fresca a famiglie che molto spesso non possono acquistarla perché ha costi troppo elevati. Quindi l’impatto sulla salute e sulla vita di questo dono non è secondario.
La quarta filiera infine sono le donazioni che arrivano da aziende del territorio del settore alimentare che hanno sovrapproduzioni o commesse che saltano. «In questo caso – conclude il referente – ci chiamano direttamente e la merce viene ridistribuita sulla rete anche a seconda di quali sono le capacità di gestione del prodotto dell’ente. È una tipologia di recupero che sta aumentando perché le aziende del territorio si stanno sempre più sensibilizzando. Qualche volta recuperiamo anche prodotti non alimentari, come vestiario o calzature, ma è più difficile».
Lodovica Vendemiati
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“Uno dei fenomeni che contribuisce considerevolmente a negare la dignità di tanti esseri umani è la povertà estrema, legata all’ineguale distribuzione della ricchezza”, l’incipit della quarta parte del testo, in cui si mette l’accento sull’aumento delle disuguaglianze e si contesta la “distinzione sommaria tra Paesi ricchi e Paesi poveri”, sulla base dell’insorgere delle “nuove povertà”, tra cui la disoccupazione, dovuta all’ossessione di “ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca”.
“Mai più la guerra!”, il grido sulla scorta del magistero dei pontefici e di quella che Papa Francesco ha definito “terza guerra mondiale a pezzi”. Sono i migranti, oggi, “le prime vittime delle molteplici forme di povertà”. La tratta delle persone “è un’attività ignobile, una vergogna per le nostre società che si dicono civilizzate, un crimine contro l’umanità”, si ribadisce nel documento: “sfruttatori e clienti a tutti i livelli dovrebbero fare un serio esame di coscienza davanti a sé stessi e davanti a Dio!”, il monito, unito all’invito a “lottare contro fenomeni quali commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato”. “Porre fine ad ogni tipo di abuso, iniziando dal suo interno”, l’impegno da assumersi per contrastare un “fenomeno diffuso nella società” che “tocca anche la Chiesa e rappresenta un serio ostacolo alla sua missione”.
“Le violenze contro le donne sono uno scandalo globale, che viene sempre di più riconosciuto”, l’altra denuncia del Dicastero guidato dal card. Fernandez: “non si condannerà mai a sufficienza il fenomeno del femminicidio”. “Molto ancora resta da fare perché l’essere donna e madre non comporti una discriminazione, l’analisi: “È urgente ottenere dappertutto l’effettiva uguaglianza dei diritti della persona e dunque parità di salario rispetto a parità di lavoro, tutela della lavoratrice-madre, giuste progressioni nella carriera, uguaglianza fra i coniugi nel diritto di famiglia, il riconoscimento di tutto quanto è legato ai diritti e ai doveri del cittadino in regime democratico”. Tra le forme di violenza, il documento cita anche “la costrizione all’aborto, che colpisce sia la madre che il figlio, così spesso per soddisfare l’egoismo dei maschi” e la pratica della poligamia, giudicata “contraria alla pari dignità delle donne e degli uomini e all’amore coniugale che è unico ed esclusivo”.
Netta la condanna dell’aborto, contro il quale “il magistero ecclesiale si è sempre pronunciato”, e della maternità surrogata, definita pratica “deprecabile” che “lede gravemente la dignità della donna e del figlio” e va proibita “a livello universale”. “La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata”, il monito contro l’eutanasia, “un caso particolare di violazione della dignità umana, che è più silenzioso ma che sta guadagnando molto terreno”. No all’eutanasia e al suicidio assistito, sì invece alle cure palliative, il cui sforzo “è del tutto diverso, distinto, anzi contrario alla decisione di eliminare la propria o la vita altrui sotto il peso della sofferenza”. Per i fragili e le persone disabili, il Dicastero raccomanda l’inclusione, antidoto alla “cultura dello scarto”. Molte le “criticità” segnalate nell’ideologia del gender, che ”vuole negare la più grande possibile tra le differenze esistenti tra gli esseri viventi: quella sessuale”.
“Qualsiasi intervento di cambio di sesso, di norma, rischia di minacciare la dignità unica che la persona ha ricevuto fin dal momento del concepimento”, si legge nella Dichiarazione. “Questo non significa – si precisa subito dopo - escludere la possibilità che una persona affetta da anomalie dei genitali già evidenti alla nascita o che si sviluppino successivamente, possa scegliere di ricevere assistenza medica allo scopo di risolvere tali anomalie”.
In questo caso, per il Dicastero guidato dal card. Fernandez, “l’intervento non configurerebbe un cambio di sesso nel senso qui inteso”. Infine, il “lato oscuro del progresso digitale”, che può favorire la “creazione di un mondo in cui crescono lo sfruttamento, l’esclusione e la violenza”.
M.Michela Nicolais
Agensir - Foto: Vatican Media/SIR
Situazione drammatica. Affida i suoi ricordi al Sir, con la voce rotta dall’emozione: “Una parte del nostro gruppo proveniva dalla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio e altri, come me, da quella cattolica della Sacra Famiglia. Abbiamo fatto un pezzo di strada in auto fino al Wadi Gaza, che separa la parte nord da quella sud della Striscia. Da lì in poi abbiamo cominciato a camminare lungo la strada che costeggia il mare per diverse ore, in direzione di Khan Younis, ma non è stato facile perché le vie erano interrotte e piene di macerie. Nel nostro tragitto – rivela la suora che in questi mesi ha lanciato continui appelli per un cessate il fuoco - abbiamo visto tanta gente vagare nella vana ricerca di aiuti. Nel nord di Gaza ne arrivano pochissimi e si fa grande fatica a reperire acqua e cibo. I prezzi degli alimenti come la farina sono decuplicati e nessuno o quasi può permettersi di fare acquisti. Nemmeno nei pochi mercati aperti. Tutti nel nord sperano e chiedono di far arrivare i convogli umanitari. La situazione è drammatica. Nella parrocchia latina si cerca di andare avanti con quel che si riesce a reperire e grazie a qualche aiuto esterno”.
"Non volevo morire in strada". “Muoversi in queste condizioni non è stato facile” racconta suor Saleh impressionata dalla distruzione davanti ai suoi occhi. In questi sei mesi, infatti, uscire dalla parrocchia è stato difficilissimo e solo per bisogni estremi perché il rischio di venire colpiti era altissimo. Come è accaduto a diversi cristiani. Ora al rombo degli aerei israeliani e al sibilo dei razzi di Hamas, al fragore delle armi, “che ci hanno fatto trascorrere giorni e notti di terrore”, si affianca la vista delle macerie. “Dai resti dei palazzi abbattuti abbiamo notato molti cadaveri. L’aria era nauseabonda, irrespirabile, ovunque c’era odore di morte. Intorno a noi sentivamo sparare e avevamo paura di essere colpiti e di morire da un momento all’altro. In quegli istanti – confida la religiosa - ho cominciato a piangere. Avrei voluto tanto tornare indietro, in parrocchia.
Non volevo morire in strada ma nella mia 'casa', in parrocchia, davanti l’altare. Ritornare verso nord non era possibile. Nel tragitto abbiamo superato i check point israeliani, sorvegliati anche da telecamere, passavamo i controlli divisi in gruppi di cinque persone. Non è stato facile. Qualcuno è rimasto indietro ma poi ci siamo di nuovo riuniti tutti”. Da Khan Younis a Rafah, fino al Cairo. Prima di Khan Younis siamo riusciti a trovare un carretto trascinato da un somaro sul quale abbiamo caricato le nostre poche cose rimaste. Molte le abbiamo lasciate lungo la strada perché non si poteva camminare con tanto peso dietro. Siamo arrivati a Rafah nel pomeriggio ma il confine era chiuso. Intorno a Rafah abbiamo visto enormi distese di tende dove la povera gente vive ammassata con servizi insufficienti. La situazione igienico sanitaria è davvero pesante. In quel momento era urgente trovare un posto dove trascorrere la notte. Grazie all’amicizia di alcuni dei giovani che erano con noi con una famiglia musulmana del posto ci ha permesso di dormire sotto una tenda allestita in un piccolo cortile di una casa ancora in piedi, ad un’ora di distanza dal confine. Questa famiglia, molto gentile e premurosa, si è presa cura di noi, ci ha offerto dell’acqua e del cibo. Così abbiamo potuto riposare un po’. In quelle poche ore che siamo stati nel sud abbiamo notato che la situazione degli aiuti è leggermente migliore che al nord. I convogli umanitari, infatti, riescono ad arrivare nelle zone meridionali della Striscia, ma non oltre. La mattina alle ore 6 eravamo già in fila ai cancelli per entrare in Egitto. Ci sono volute 12 ore per passare la frontiera e altre 8 per arrivare al Cairo".
Con il cuore a Gaza. "Il mio primo pensiero, guardando Gaza dall’Egitto, è andato alla piccola comunità cristiana che vive sfollata nelle due parrocchie, a tutta la popolazione che paga, soffrendo, una guerra che non vuole, alle vittime delle due parti, ai feriti, agli ostaggi. Il mio pensiero è andato alla nostra scuola del Rosario, la più grande della Striscia con i suoi circa 1300 studenti, quasi tutti musulmani, che non esiste più perché è stata bombardata. E mi sono chiesta: chi potrà ricostruire Gaza? Quando questa terra potrà conoscere un po’ di pace? Cosa ne sarà di questa popolazione sfollata? I leader del mondo tacciono. Perché? Solo Papa Francesco è rimasto a invocare la pace su israeliani e palestinesi. Ogni giorno – ricorda suor Nabila – chiama in parrocchia per sincerarsi delle nostre condizioni, per pregare, per esprimere vicinanza. Cosa accadrà in futuro?
Noi non sappiamo nulla, conosciamo però la preoccupazione delle famiglie per i loro figli che non avranno scuole, ospedali, lavoro, un futuro. Tutto questo non farà altro che alimentare nuove tensioni e preparare nuovi conflitti. Chi può, chi riesce anche a pagare, cerca di uscire, di andare via in Australia, in America, in Europa, dove un futuro è possibile. Al mondo chiedo: quale sarà il futuro di Gaza?”.
Daniele Rocchi
Agensir - Foto: Gaza Rosary’s school
Più nello specifico: la parrocchia è un contesto adatto alla dimensione della preghiera, del raccoglimento, della coltivazione della vita spirituale?
La domanda, come sa bene chi in parrocchia ci vive e ci presta servizio, non è affatto provocatoria o ridondante, perché nella paradossalità dei nostri tempi le parrocchie, almeno quelle di città come la mia, non hanno smesso di essere molto ricercate, sebbene per le finalità più disparate: dalla ricerca di spazi (sale, aule, auditorium, ecc.) per svolgere le attività ricreative più varie, a quella di un tipo di aggregazione leggermente più tutelata che altrove, per passare al bisogno di esprimere se stessi e il proprio bisogno di senso attraverso varie forme di servizio e collaborazione, fino alla classica richiesta di cerimonie, celebrazioni, lasciapassare canonici vari, nonché, per i più credenti, di servizi religiosi espressi (confessioni, benedizioni, Messe di suffragio, ecc.).
Ne emerge l’immagine di una parrocchia che è ancora al centro delle attenzioni della gente del quartiere in cui sorge, sebbene solo occasionalmente queste attenzioni siano riferite direttamente alla finalità per cui la parrocchia c’è, ovvero per raccogliere in unità la comunità cristiana locale, nutrendone la fede e la carità, e per evangelizzare quelli che ancora non ne fanno parte.
Nelle parrocchie più vivaci si “fa” molto, in quelle meno vivaci si “fa” poco, ma il rischio è che sempre e solo di “fare” si tratti, con i poveri parroci trafelati che corrono qua e là ad aprire stanze, firmare certificati, discutere con candidati padrini impresentabili, scapicollarsi a dire la Messa d’orario, celebrare funerali, spegnere le luci lasciate accese dai gruppi, ecc. ecc.
Messe, salsicciate e cineforum appiattiti tutti nell’unico grande insieme delle “attività della parrocchia”, che di solito vedono coinvolte le stesse persone in tutte le versioni, a partire dai parroci trafelati di cui sopra fino alle beghine ubique.
Se a tutto questo, che è il tran tran ordinario della classica parrocchia, aggiungiamo il serpeggiante equivoco per cui “preghiera” significherebbe nient’altro che “celebrazioni liturgiche”, possiamo confermare che la domanda con cui abbiamo iniziato sia molto interessante, e che dovrebbe interpellarci senza trovarci reattivamente pronti a levare gli scudi del nostro amor proprio o degli stereotipi banali che tanti, troppi, di noi cattolici hanno nella testa.
In parrocchia si prega?
Perché, certo, la liturgia è preghiera – anzi, è LA preghiera per eccellenza. Ma se in una comunità, e nella casa di quella comunità che è la parrocchia, manca la possibilità di coltivare e approfondire la dimensione interiore e personale della preghiera, la liturgia facilmente si riduce a formalismo, a qualcosa che, in ultima analisi, non digerito dalla mia coscienza, ne rimane esterno, e la relazione con Dio rimane rinchiusa dalle pareti della chiesa parrocchiale, senza possibilità di riversarsi nelle cose della vita: abbiamo visto l’effetto disastroso di questo modo di vedere la fede durante la pandemia.
Nelle prossime settimane vogliamo quindi esplorare questa domanda, anzi farci esplorare da essa, chiedendo al Signore di illuminare i nostri timori e le nostre speranze, così da farci ricontattare la nostra sete di preghiera.
Alessandro Di Medio
Agensir - Foto: Siciliani - Gennari/SIR
“Gli intervistati hanno una storia formativa abbastanza uniforme: hanno partecipato alla catechesi dell’iniziazione cristiana fino alla Comunione o molti anche alla Cresima. Uno di loro non è battezzato e uno ha fatto lo sbattezzo”, spiega la curatrice Paola Bignardi. “Della catechesi ricordano soprattutto la noia e la difficoltà di comprendere idee estranee alla loro vita; hanno apprezzato la possibilità di stare con gli amici e le amiche, che ha costituito il contorno dell’incontro di catechesi. Di ciò che hanno imparato in quell’esperienza dicono di non ricordare nulla, ma di aver apprezzato la possibilità di vivere nell’insieme un’esperienza di socialità bella”.
Più difficile è la partecipazione alla messa della domenica, “di cui ricordano noia e soprattutto senso di costrizione da parte dei genitori. I ricordi decisamente positivi di quella fase della vita sono legati ad esperienze estive: campiscuola, vacanze con la parrocchia…; in quel contesto anche la preghiera, soprattutto a contatto con la natura, è stata vissuta come un momento bello”.
Paola Bignardi spiega che "sembra fallito il passaggio da una fede infantile a una fede personale"; per i giovani che hanno risposto all'indagine "è difficile accettare la Chiesa così come è"; "la proposta religiosa non sa dare risposte alle domande esistenziali".
Eppure "l'abbandono della Chiesa non corrisponde sempre all'abbandono della fede". C'è semmai "una fede personale, una ricerca di se stessi; una fede solitaria, senza comunità". Ci sono percorsi di ricerca spirituale, "una strada possibile ma non scontata verso Dio", che si incontra nella propria coscienza, "nel mondo interiore, non nella tradizione". "Un percorso - dice Bignardi - di libertà". Sarebbe in atto "una trasformazione del credere". C'è qualcosa di più "del dato generazionale, un modo nuovo di interpretare l'umano, cercano una fede contemporanea, in dialogo con la vita delle donne e degli uomini di oggi". Provocazioni, queste, che investono tutta la Chiesa.
Gianni Borsa
Agensir - Foto: SIR
...richiedi il foulard dell’Associazione Universale di Sant’Antonio, benedetto sulla Tomba del Santo.
Ti chiediamo un libero contributo, che l’Associazione destinerà ad opere di carità (scarica qui un CCP da stampare e compilare).
Il foulard riporta il volto di sant'Antonio realizzato dai fratelli Nino e Silvio Gregori che ormai è diventato l'immagine identificativa della nostra Associazione.
Pensiamo che questo semplice accessorio possa avvolgerci in un abbraccio fraterno, sotto lo sguardo del Santo, quell'abbraccio caldo e rincuorante che solo una famiglia, un luogo sicuro, può dare. La devozione a sant'Antonio, l'affetto che proviamo per questa figura così speciale ci unisce in un vincolo unico di solidarietà e preghiera tale per cui ogni distanza viene annullata.
Il foulard ha dimensioni 60x60 cm, 100% cotone, colore bianco.
Per info e maggiori dettagli scrivi una mail a:
associazione@santodeimiracoli.org
oppure mandaci un messaggio Whatsapp al numero 3701306932
o chiamaci al 0498759199
Un lungo (e forse incompleto) elenco di conflitti: l'Ucraina, la Libia e lo Yemen, l'Etiopia, la Repubblica democratica del Congo, l'America Latina, la Siria, Haiti e la Terra Santa... Sì, proprio la Terra Santa, cioè il luogo dove Gesù ha vissuto i suoi ultimi dolorosi giorni: dall'Orto degli Ulivi al Cenacolo, dal pretorio al monte Golgota. Non ci sono pellegrini quest'anno sui luoghi santi: sono completamente vuote le località della Galilea come Cafarnao e Tabga, sempre affollate al pari del monte delle Beatitudini. Desolata è la stessa Gerusalemme dove la gente ha paura a uscire di casa, tende a rimanere nella propria abitazione, dove gli arabi hanno paura addirittura a parlare la propria lingua. Il conflitto sulla striscia di Gaza ha già portato via più di 32.000 morti, 12mila dei quali bambini. Le stime parlano di almeno 8mila persone ancora sotto le macerie. È un immenso calvario che sembra non finire mai.
Papa Francesco - per tutti questi popoli e per l'umanità intera - non si stanca di invocare il cessate il fuoco, di sognare un orizzonte di pace, di chiedere il rilascio di ostaggi e la fine di ogni violenza. Oggi più che mai abbiamo bisogno del Risorto. «Lasciamoci vincere dalla pace di Cristo! La pace è possibile, la pace è doverosa, la pace è primaria responsabilità di tutti!».
]]>Nel 1888 diede vita alla rivista “Il Santo dei miracoli” e successivamente alla Libreria Antoniana.
Dal suo primo numero datato 15 settembre 1888, “Il Santo dei miracoli”, ancora oggi attivo, costituisce un primato che pochi periodici possono vantare. Forse neppure il suo fondatore, alla cui energia intellettuale ed organizzativa tanto deve la diffusione della stampa antoniana, poteva prevedere un cosí eccezionale risultato.
Gli anni in cui nasce “Il Santo dei miracoli” sono anni di grande fervore di iniziative editoriali, anche nell’area propria della cultura cattolica, iniziative spesso destinate però a durare lo spazio di qualche mese. “Il Santo dei miracoli” seppe invece individuare dal suo sorgere uno spazio preciso, senza ambizioni diverse (e qui sta la ragione fondamentale del permanere immutato del suo successo per un cosí lungo arco di tempo): quello di essere uno strumento di comunicazione e di unione spirituale tra i devoti di sant’Antonio.
Ci sono due aspetti che hanno caratterizzato il periodico fin dal suo inizio: il largo spazio dedicato al dialogo con i lettori, a testimonianza della specificità dell’iniziativa editoriale, costruita sul consenso dei suoi lettori, e l’apertura internazionale della pubblicazione, edita fin dai primi anni in piú lingue, a conferma della universalità della devozione antoniana.
Oggi possiamo guardare con ammirazione alla grande intuizione del suo fondatore, e alle capacità di quanti in un cosí lungo periodo di tempo hanno contribuito alla diffusione della rivista.
Sant’Antonio è “il Santo di tutto il mondo”, secondo la definizione di Leone XIII, ma i Padovani da subito, cioè dal 13 giugno 1231, giorno della sua morte, lo eleggono a patrono, lo fanno interamente padovano, trasmettendogli l’affetto e la riconoscenza della Città, a quello di Antonio; anche “Il Santo dei miracoli” si è fatto conoscere in tutto il mondo come centro di cultura e di fede. “Il Santo dei miracoli” ha svolto e va svolgendo un provvidenziale compito di collegamento non solo tra i devoti di Sant’Antonio ma anche con quanti intendono essere attenti ai problemi attuali della vita cristiana. Attorno alla rivista si muove un “universo” di fede, di affetti, di confidenze e di richieste, per il quale la direzione e la redazione riservano risposte sempre improntate alla chiarezza e alla carità. Sono i lettori i veri beneficiari della pubblicazione. Moltissimi vivono al di là dell’oceano e coltivano, con la devozione a sant’Antonio, la fede religiosa, l’amore alla Patria, l’attaccamento alla Chiesa.
Non è facile capire le linee di tendenza della nostra società, ma poiché siamo chiamati a vivere la nostra esperienza di battezzati qui e adesso, dobbiamo, fiduciosi del costante intervento del Signore e della protezione di sant'Antonio, essere “presenti” in modo sereno e sicuro. “Il Santo dei miracoli" sente forte il dovere di questa testimonianza.
]]>È un aiuto ai poveri della città, a chi è in difficoltà, un sostegno concreto e solidale. Con il tempo quest’opera di carità, per essere il più vicino possibile alle esigenze della quotidianità, ha sviluppato nuove collaborazioni e al pane si sono affiancati anche altri servizi e beni di prima necessità. Il pane di cui c’è bisogno oggi non è solo quello cotto nel forno: proprio per questo l’intento dell’Associazione Universale di Sant’Antonio , continuando il cammino tracciato dal fondatore, è di farsi sempre più vicino ai bisogni delle persone in difficoltà, per continuare a scrivere pagine di Vangelo in nome di sant’Antonio.
Ogni giorno vengono distribuiti circa tre quintali di pane fresco ai poveri della città, agli immigrati di ogni razza e religione, a famiglie o persone singole. Ne beneficiano oltre 3000 persone, ma i numeri sono in continuo aumento perché le povertà e le fragilità, anche negli ultimi anni, hanno assunto nuovi volti: famiglie, anziani, genitori separati, giovani stranieri, mamme con bambini. Il pane viene donato anche alle Cucine Economiche Popolari in un quantitativo di oltre trenta chili al giorno.
Ogni giorno chi si avvicina all’Opera del Pane dei Poveri può inoltrare, oltre ai volontari dell’Associazione Universale di Sant’Antonio, anche il volto materno delle Suore Terziarie Francescane Elisabettine che furono incaricate dall'allora vescovo di Padova mons. Girolamo Bortignon, a sovrintendere alla distribuzione del pane. La loro presenza, silenziosa ma al contempo vicina alle sofferenza delle persone, è preziosa, così come i loro consigli e la loro preghiera.